
LUIGI GHIRRI: Introspettivo, minimalista, concettuale
“Ho sempre ritenuto che la fotografia fosse un linguaggio per vedere e non per trasformare, occultare, modificare la realtà. Ho lasciato che fosse la sua magia a rivelare al nostro sguardo gli spazi, gli oggetti che voglio rappresentare. Fiducioso che uno sguardo libero da acrobazie formali, elucubrazioni, riesca a trovare un equilibrio tra consapevolezza e semplicità. Nessuna violenza, né choc visivo-emozionale, o forzatura, ma il silenzio, la leggerezza, il rigore per poter entrare in rapporto con le cose, gli oggetti, i luoghi.”
Dietro queste parole tratte dallo scritto “L’Opera Aperta” del 1984 si cela la personalità modesta e riflessiva di Luigi Ghirri, nato a Scandiano nel 1943 e scomparso a Reggio Emilia ad appena 49 anni. Artista profondamente innovatore ed introspettivo, viene definito dai molti come un “filosofo con la macchina fotografica” per via della sua capacità di guardare dentro e oltre le cose, abilità che gli permette di elevare ad arte quegli scorci o attimi della realtà circostante generalmente celati dalla disattenzione dei passanti.
I suoi scatti mostrano la faccia melanconica dell’Italia degli anni ’70 e ’80, esaltando gli angoli trascurati di luoghi dimenticati: un invito, il suo, ad osservarne la semplicità con approccio diverso facendo nostro il suo punto di vista prezioso ed inusuale.


Le fotografie di Ghirri: un diverso “campo di attenzione”
La radice del lavoro di Ghirri è riconducibile all’incontro avvenuto, alla fine degli anni Sessanta, con un gruppo di giovani artisti concettuali modenesi. Da lì concretizza l’idea che maturava da tempo: abbandonare il suo lavoro da geometra per dedicarsi alla fotografia.
La sua passione, accompagnata da un forte desiderio di conoscenza, si alimenta di ispirazioni tratte dagli stili dei più noti fotografi del panorama artistico internazionale come Eugène Atget, August Sander, Walker Evans, Robert Frank, Lee Freedlander e William Eggleston. Nonostante la sua ispirazione si spinga oltreoceano, i suoi scatti non varcheranno mai i confini italiani- in particolare della campagna emiliana- preferendo piuttosto focalizzarsi nella bellezza della realtà nascosta “a due chilometri da casa sua”.
Nel ’72 apre uno studio grafico e la sua passione per lo scatto inizia a prendere i contorni di uno stile via via più definito, uno stile che si interroga sull’ambiguità dei paesaggi contemporanei e ne porta alla luce una concettualità dai contorni sbiaditi e “metafisici”.
In un primo periodo il suo occhio si posa su manifesti, insegne, oggetti e ritratti dentro alle vetrine e così ancora a frammenti trovati casualmente per strada: da ciò capiamo che a catturare l’interesse di Luigi Ghirri non è il risultato estetico ma l’atto stesso del guardare e del fotografare.
“Guardare”, dice l’artista, è “la capacità al contempo razionale ed emotiva di decifrare i dati raccolti attraverso la percezione, trasformandoli in pensiero visivo”. Su questa scia , che richiama i ready made di Marcel Duchamp, Ghirri struttura le sue prime serie che prendono spunto dalla visione del paesaggio urbano: nasce così Colazione sull’erba, un lavoro che si concentra sul rapporto tra natura e artificio attraverso uno sguardo ai giardini condominiali e alle villette unifamiliari della periferia.


Nella serie “Catalogo” analizza invece la ripetitività che caratterizza la cultura contemporanea: fotografa muri, porte, finestre e serrande, dettagli singoli o in sequenza che fanno parte di un panorama costruito. Ogni scatto sembra “sospeso”, privo al suo interno di figure umane ma in cui l’intervento dell’uomo è sempre presente.
“Infinito” , presentato come un album autobiografico del cielo, resta tra le serie di scatti più suggestive: comprende 365 immagini di cielo fissate giorno dopo giorno e montate alla fine dell’anno secondo una fitta texture che non segue l’ordine cronologico, offrendo così la possibilità di essere ricomposta all’infinito.

L’interesse per il paesaggio si fa poi insistente a tal punto da indurlo a organizzare imprese collettive coinvolgendo altri fotografi interessati al tema: “Viaggio in Italia” del 1984, organizzato insieme a Gianni Leone e Enzo Velati, è considerato ad oggi una pietra miliare nella fotografia del ‘900.


Apparentemente asciutti e scarni, questi paesaggi si rivelano essere ben lontani dalle immagini da cartolina stereotipate e spettacolarizzate ma si fanno emblema di un’indagine volta a scoprire gli interstizi più anonimi e marginali. Quale miglior rivoluzione della semplicità?
Rispetto al tema del “Paesaggio interiore” e della lettura dunque intimista dei luoghi, Ghirri produrrà altre serie fotografiche tra gli anni ’80 e ’90, “Atelier Morandi” e “Studio di Aldo Rossi” sono tra le più note.
L’evoluzione stilistica
La fotografia di Ghirri rappresenta un andare controcorrente in un periodo in cui lo “stile Cartier Bresson” aveva la sua predominanza. La tendenza dell’artista a spingersi al di la del momentaneo e far emergere il sentimento eterno insito nelle cose andrà a modificare ed influenzare la concezione della fotografia moderna.
La poetica visiva di Ghirri si contraddistingue per l’uso del colore che subisce un’evoluzione assai notevole nella sua produzione fotografica: mentre le fotografie degli esordi evidenziano una ricerca coloristica pop e volutamente amatoriale che somiglia alla pellicola che tutti potremmo utilizzare, nei periodi più recenti il colore si desatura e si fa più rarefatto fino a divenire uno dei suoi tratti più inconfondibili.
A rendere le sue opere “nebulose” è la predilezione per le tonalità pastello ed in modo particolare per l’azzurro tenue. Ai colori delicati si aggiunge la tendenza alla sovraesposizione che conferisce ai luoghi ritratti la sensazione di essere sospesi, non realistici se non addirittura metafisici, tendenza che ha trovato seguito nel mondo della fotografia contemporanea.



Il minimalismo narrativo avvolge ogni immagine in cui permane un senso di libertà ed attesa. Tutto sembra essere scritto in un racconto dal linguaggio concettuale: l’intento di Ghirri, infatti, è quello di far riflettere l’osservatore in modo filosofico e non documentare in maniera passiva ciò che accade.
La fotografia, secondo Ghirri, altro non è che una selezione del nostro campo d’attenzione: il suo ignora le folle di persone nelle piazze per rivolgersi agli angoli dimenticati, non ritenuti all’altezza di uno scatto, in cui l’anonimo diventa protagonista e la figura umana compare indistinta nel contesto o non compare affatto.
Ad ogni modo Ghirri ritiene che la cosa più importante di uno scatto sia ciò che ne rimane fuori dai margini. L’intera sua visione delle cose può essere racchiusa in una fotografia, trovata nell’ultimo rullino, che l’artista non fece in tempo a sviluppare prima della sua morte nel 1992: essa ritrae la soglia di un infinito che si disperde a vista d’occhio.

Articolo a cura di: Maria Nunzia Geraci