CAN’T HELP MYSELF: l’opera di Sun Yuan e Peng Yu tra conflitto e paradosso

Definita da molti destabilizzante e decisamente provocatoria, “Can’t help myself” è l’opera d’arte robotica firmata dagli artisti cinesi Sun Yuan e Peng Yu nell’anno 2016 ed esposta nel padiglione centrale della 58esima Esposizione d’arte internazionale di Venezia del 2019.

Protagonista dell’installazione che tanto ha scosso l’emotività degli spettatori è un grande braccio robotico, chiuso in una teca di plexiglass, la cui estremità a spatola cerca di arginare invano una pozza di liquido viscoso portandola verso il centro.

Il movimento disperato, i rumori metallici e il liquido che non accenna a diminuire in quantità raccontano la realtà automatizzata che oggi il mondo fronteggia ed invita a riflettere sulle ossessioni e le compulsioni dell’essere umano nella società contemporanea.

Originariamente commissionata dal Guggenheim di New York con l’intento di essere esposta nella mostra “Tales Of Your Time” diviene poi parte della collezione permanente del museo, incuriosendo il pubblico con la sua danza ipnotica e disperata.

Ma prima di entrare dentro il cuore complesso di quest’opera è opportuno offrire una panoramica sull’operato dei due autori il cui sodalizio artistico si è molto evoluto negli anni conducendoli all’ottenimento di importanti riconoscimenti come il “Contemporary Chinese Art Award”.

Entrambi nati nei primi anni ’70, Yuan e Yu si conoscono all’Accademia centrale d’arte di Pechino; nonostante il giovanissimo incontro, iniziano a collaborare solo all’inizio degli anni ’90 quando si incrociano ad una mostra d’arte contemporanea che vede entrambi come partecipanti.

L’affinità artistica è tale da spingerli a creare insieme una serie di opere passate alla storia della contemporaneità: tra queste la clamorosa “Dogs Which Cannot Touch Each Other” presentata al Guggenheim nel 1989 costretta poi alla censura da parte dei movimenti animalisti e l’installazione cinetica “Old Persons Home” alla Saatchi Gallery di Londra nel 2008. E’ ormai risaputo infatti che il fare arte di Sun Yuan e Peng Yu si presta ai più aspri dibattiti in quanto prevede l’utilizzo di materiali inusuali ed estremi come tassidermia o grasso umano, spesso accompagnati dalla tecnologia. Il loro approccio è concettuale, velato di un umorismo macabro che non teme di sfidare gli standard morali prevalenti dell’arte contemporanea mondiale.

La lotta tra la compulsione umana e la natura fisica dei materiali

Per realizzare l’opera, gli artisti si servono di un tipo di braccio robotico che viene spesso utilizzato su linee di produzione industriale, inserendo una pala su misura nell’estremità anteriore e dotandola, con l’aiuto di due ingegneri robotici, di un sistema software e di sensori di riconoscimento. Ad essi si aggiungono una serie di 32 movimenti che la macchina deve eseguire: Yuan e Yu chiamano questi movimenti “scratch an itch”, “bow and shake” e “ass shake”, nomi buffi che riflettono la loro intenzione di animare la macchina.

Questa sembra prendere una vita propria, danzando e tremando mentre il braccio robotico si muove tutt’intorno per contenere il liquido color sangue. Quando i sensori rilevano che il fluido si è allontanato troppo, il braccio lo riporta freneticamente al suo posto lasciando macchie sul terreno e schizzi sulle pareti circostanti.

“L’idea nasce da una forma di disturbo ossessivo compulsivo: quando un bicchiere d’acqua viene rovesciato sul tavolo e l’acqua si diffonde, le persone usano inconsciamente le mani per bloccare il flusso d’acqua, per impedire che l’acqua goccioli a terra o più in là sul tavolo. Il senso di controllo è un istinto umano. Viviamo tutti in un sistema, controllati dal sistema, e cerchiamo di controllare più cose nel sistema”

Il titolo dell’opera, “Can’t help myself” suggerisce l’impossibilità della macchina di riuscire nel suo intento: nonostante essa provi insistentemente a contenere il liquido che continua a propagarsi intorno a se è destinata a non riuscirci e il movimento metallico riflette la sua disperazione dal tratto incredibilmente umano.

I significati che vi si attribuiscono sono molteplici: la costante danza del robot rappresenta l’inutilità dei moderni tentativi di mantenere la sovranità, esprime l’inquietudine del mondo contemporaneo e il bisogno di controllo nonché l’impossibilità di riuscire a esprimere le proprie emozioni le quali, se trattenute, prendono il sopravvento sconvolgendo e distruggento ciò che le circonda… ed infatti, si ravvede una profondità di significato soprattutto nella stanza striata di liquido e schizzata attorno alla macchina.

Non è un caso che il colore e la consistenza del fluido abbiano un aspetto molto simile al sangue: esso rappresenta la violenza coinvolta nel rilevamento e nella protezione dei confini.

Ha lo scopo di evocare la stessa reazione istintiva che gli esseri umani hanno nei confronti dei meccanismi, spesso disumani, utilizzati dai governi per sorvegliare i confini tra luoghi e culture separati e il crescente uso della tecnologia moderna per monitorare i movimenti dei migranti attraverso le linee sovrane, impedendo la libera migrazione. Un’opera di denuncia, secondo molti, nei confronti del regime cinese che ruota attorno alla sottomissione, alla censura e al potere politico.

Le persone empatizzano dunque con la tristezza e la disperazione degli sforzi infiniti di questa macchina umanizzata intenta a spalare sangue, sforzi talmente vani da indurla ad arrugginirsi e smettere di funzionare nel 2019, perdendo quella battaglia di cui si conosceva già l’esito.

Arte robotica: quando la macchina viene umanizzata

Non è la prima volta che si assiste all’utilizzo di un braccio meccanico per l’espletamento di un’opera d’arte. Basti pensare all’installazione dal titolo “Choreographic Object” presentata dal coreografo e artista William Forsythe alla Gagosian Gallery di Le Bourget. Due immensi robot industriali effettuano una danza, accompagnati da grandi bandiere nere: un modo per riflettere ed esplorare sulla individualità e sul corpo tramutando il compito di un robot da industriale a poetico.

Anche qui, il ruolo del pubblico è di esclusiva osservazione ed interpretazione: l’oggetto coreografato è il solo protagonista dell’installazione la quale evidenzia l’umana tendenza di animare l’inanimato.

“Tutto è aperto all’interpretazione. Non si può avere un’opinione sull’interpretazione, è un fenomeno a sé stante. Alla gente piace antropomorfizzare, rendere le cose umane o sensuali. Dipende da come classificano le azioni e quali sono i loro riferimenti  – William Forsythe”

Articolo a cura di Maria Nunzia Geraci

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